giovedì 25 settembre 2014

Il primo ingegnere santo.

 Su Tempi di questa settimana ho scritto questo ricordo di don Alvaro:



A qualcuno sarà capitato di leggere biografie sul proprio padre. Penso che avrà vissuto la sensazione che io provo ora: quante notizie belle e giuste! Ma per me, mio padre è mio padre. Perciò sono lieto che ci siano tanti libri su don Alvaro del Portillo, ma a me piace ricordarlo come l’ho conosciuto, prima da fratello maggiore e poi da padre.
Nei nostri incontri con San Josemaría don Alvaro (accento sulla prima “a”, alla spagnola)  era sempre presente.  Soprattutto nelle prime riunioni col fondatore dell’Opus Dei eravamo emozionati perché conoscevamo finalmente l’autore del libro di pensieri “Cammino”, colui che era chiamato con affetto “Padre” da chi ci aveva preceduto: San Josemaría metteva subito tutti a proprio agio con il suo buonumore, anche se la sua fede, così tangibile e fondante, era commovente. Quando il Padre entrava nella stanza lo seguiva un sacerdote sorridente che si metteva nel fondo della sala, dietro a tutti. Se il Padre doveva ricordare qualcosa: una frase o un nome, diceva con voce più alta: “Alvaro!” e la risposta arrivava immediata. Mai c’era un’esitazione o un errore. Così cominciammo ad affezionarci a questa figura dal sorriso buono che era come l’ombra del Padre. Un’ombra molto efficace perché gran parte del peso della costruzione dell’edificio giuridico e anche dell’edificio materiale della casa centrale della Prelatura cadevano sulle sue spalle. Una volta don Alvaro si ammalò e uno di noi disse a San Josemaría: “Padre è preoccupato?” e il Padre rispose: “Figlio mio forse non ti rendi conto di quanto significa don Alvaro per tutta l’Opera e per tutti voi…”.
Il suo carattere mite metteva a suo agio chiunque. San Josemaría travolgeva l’interlocutore in un’onda di simpatia e di buonumore, e, senza volerlo, metteva in imbarazzo coloro che non erano animati da rettitudine d’intenzione che rimanevano spiazzati davanti ad un uomo di Dio che ragionava in maniera soprannaturale. Viceversa gli uomini di fede e di preghiera s’innamoravano di lui. Fra i cardinali entusiasti ricordo, ad esempio, Angelo Dell’Acqua e Pietro Palazzini che erano apertamente convinti della santità di San Josemaría, più di noi. Don Alvaro, da parte sua, riusciva a non mettere nessuno in difficoltà, non spaventava nessuno: cosa singolare perché la vita mi ha insegnato che la santità spaventa: non si spiega altrimenti la fiera opposizione che tutti i santi hanno trovato nel loro percorso. Si potrebbe dire che San Josemaría ha portato il suo messaggio impetuoso sotto gli occhi di tutti. Don Alvaro, dopo la morte del Santo, riuscì a condurre in porto l’itinerario giuridico dell’Opera e a realizzare imprese che il Padre aveva soltanto progettato. In realtà è impossibile distinguere l’operato dei due perché la loro azione era così congiunta che era difficile dire cosa faceva l’uno e cosa l’altro. Senza dubbio il Padre aveva ricevuto il carisma fondazionale ma don Alvaro (che aveva 12 anni meno di lui) gli stette a fianco in totale unità d’intenzioni e d’azione.
Quando, nel 1975 San Josemaría morì, malgrado il nostro dolore, l’Opera non subì nessuno scossone anzi, ne sono testimone in Italia, subì un’accelerazione morbida come quella dei treni ad alta velocità. Ci fu un fiorire di vocazioni all’Opera come se ci sentissimo tutti più responsabili e il primo di noi era don Alvaro, che da fratello maggiore passò ad essere il Padre. Lui stesso raccontò, contento e sorridente, che una collaboratrice domestica gli aveva scritto dicendo: “Non è morto il Padre, è morto don Alvaro, perché per noi c’è sempre il Padre”.
Non è da credere che la sua semplicità fosse semplicioneria. Aveva brillantemente ottenuto la laurea in ingegneria trasporti, che era molto impegnativa in Spagna, mentre lavorava intensamente nelle attività dell’Opera. Dopo la laurea lavorò per qualche tempo come ingegnere. Il Padre aveva voluto che si laureasse anche in lettere e che percorresse per bene l’itinerario degli studi ecclesiastici prima di diventare sacerdote nel 1944 con altri due fedeli dell’Opera. Erano i primi tre sacerdoti dell’Opus Dei. Il Padre si affrettò a confessarsi con lui e a chiedergli in ginocchio la benedizione.
Nel 1943, ancora laico, in piena guerra, era venuto a Roma in aereo (un viaggio avventuroso) per illustrare a Pio XII l’Opus Dei. Conobbe allora mons. Giambattista Montini che, apprezzando il messaggio di chiamata universale alla santità dell’Opus Dei, pronunciò la famosa frase: “Siete venuti con un secolo d’anticipo”. Una frase che servì a don Alvaro per indurre il Fondatore a venire a Roma nel 1946 e stabilirsi definitivamente.
La sua unità e dedizione a San Josemaría era totale. In uno degli incontri pubblici del Fondatore una ragazza intervenne dicendo: “Una mia amica mi ha fatto osservare con quanto affetto seguono il Padre coloro che stanno sempre con lui. Chissà quante volte hanno sentito le stesse cose eppure sono attentissimi a tutto ciò che dice”. San Josemaría non lo dette a vedere, ma si commosse, e rispose con impeto: “Ebbene sì ci vogliamo bene…”
Fin dai primi tempi romani don Alvaro ebbe incarichi nei vari dicasteri della curia pontificia, dove era stimatissimo. Partecipò attivamente ai lavori preparatori del Concilio, nel dopoconcilio e negli anni successvi, fino al 1975 quando fu eletto all’unanimità successore di San Josemaría.
Singolarmente la sua mitezza era compatibile con una capacità di lavoro inesauribile. Ricordo che proprio il 15 settembre del 1975, quando diventò per noi il Padre, fu circondato dall’affetto di tutti e accolse tutti con affettuosa cordialità. In quel periodo Joaquin Navarro Valls lavorava nella segreteria dell’Opera occupandosi dei rapporti con i mezzi di comunicazione. Eravamo insieme quando incontrammo il nuovo Padre, che fu affettuosissimo. Ad un certo punto dette delle indicazioni pratiche a Navarro con una tale lucidità ed efficacia che rimasi impressionato. Malgrado le emozioni e le distrazioni a cui era sottoposto, don Alvaro non perdeva la bussola e restava lucido ed efficiente.
Negli anni settanta lo incontrai diverse volte perché lavoravo nella Commissione Regionale italiana (l’organo di governo dell’Opus Dei per l’Italia) ma, fra tanti incontri, mi è rimasto impresso un piccolo episodio, quasi troppo piccolo, ma per me significativo. Avevo lasciato Milano (sede della Commissione), mi ero stabilito a Roma e attendevamo una visita importante nella residenza universitaria dell’EUR: mi pare che si trattasse del segretario di stato vaticano, il cardinal Agostino Casaroli. Tutto era ben preparato, ma all’improvviso arrivò la disposizione di cambiare l’ordine delle sedie in aula magna: non più in modo circolare ma orientate verso il palco. Ci fu un bel po’ di confusione e noi tutti davamo una mano. All’improvviso mi trovai di fronte don Alvaro che mi guardò affettuoso e disse: “ciao Pippo”. La sala era piena di persone che il Padre conosceva e io ero impegnato in una semplice manovalanza, in atteggiamento funzionale; non mi aspettavo un saluto personale che, proprio per questo, mi è rimasto impresso. In mezzo alla confusione il Padre manteneva la serenità e vedeva persone, figli suoi che gli stavano a cuore uno per uno. Può sembrare un semplice episodio ma mi è rimasto nel cuore: vorrei che il Signore mi accogliesse un giorno in Paradiso dove trovare don Alvaro che mi dicesse: ciao Pippo!
Quando don Alvaro morì Giovanni Paolo II arrivò subito nella Chiesa Prelatizia dell’Opus Dei in Viale Bruno Buozzi a Roma, dove giaceva la salma. Si vedeva che era addolorato per la perdita di un caro amico, di un amico stimato, di un amico santo. Si trattenne a lungo in preghiera e noi pregavamo appassionatamente con lui, convinte che don Alvaro ci sorridesse dal cielo. Sono stati momenti indimenticabili, di famiglia.
Qualcuno ha fatto notare che don Alvaro è il primo ingegnere ad essere beatificato nella storia della Chiesa. E’ un fatto significativo proprio per l’obiettivo a cui don Alvaro si è tanto dedicato: far comprendere a tutti che il Signore chiama ciascuno alla santità, qualsiasi mestiere faccia, spazzino o ministro. Ora diventa più chiaro che anche gli ingegneri possono andare in Paradiso, purché non siano noiosi (difetto della categoria) e siano spiritosi come i santi. Ma per me don Alvaro significa qualcosa di più: resta il modello della fedeltà. Il Signore ci dona alcune creature eccezionali che hanno grazie particolari, mistici, condottieri del bene, taumaturghi. Queste persone ci aprono strade nuove, spalancano orizzonti di santità e San Josemaría è uno di questi. Per i comuni fedeli non è così. A loro è richiesto solo di amare in modo straordinario restando persone ordinarie, normali. Don Alvaro per me è il capofila di questi fedeli, di quelli che non devono dire nulla di nuovo, persone a cui è richiesta una sola cosa: la fedeltà. Non a caso i cristiani si chiamano così: fedeli. Un nome che piaceva a San Josemaría e a don Alvaro: fedeli!

1 commento:

  1. Per la verità non è il primo ingegnere santo (a prescindere dal fatto che nel calendario liturgico verrà classificato come vescovo). Nel 2004, infatti, Giovanni Paolo II beatificò Alberto Marvelli, giovane ingegnere meccanico, morto in un incidente stradale. Senza contare Piergiorgio Frassati, che morì poco prima di conseguire la laurea in ingegneria mineraria.

    RispondiElimina